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Jan H.
Andersen http://www.jhandersen.com
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Questo breve articolo ha la scopo di sensibilizzare
i genitori di figli preadolescenti e adolescenti sull’esistenza di un fenomeno
in continua crescita che, avendo ormai superato i confini nipponici, si sta
sempre più diffondendo, seppur con alcune sostanziali differenze, nel mondo
occidentale.
L’intenzione è quella di divulgare l’informazione
su tale fenomeno, senza per questo voler fare terrorismo psicologico, e di dare
qualche consiglio pratico su come prevenirlo, riconoscerlo ed, eventualmente, affrontarlo.
Volutamente ne sarà dato, per quanto possibile, un
taglio semplice, agile, poco scientifico e di facile lettura per consentire
agli adulti cui è rivolto di approfondire la loro competenza relazionale ed
educativa.
Cos’è l’hikikomori e quali sono le sue varianti occidentali?
Hikikomori è un termine coniato all’inizio degli anni ‘80 da uno psichiatra giapponese, Saito Tamaki, per connotare uno specifico comportamento osservato in un numero sempre maggiore di giovani, i quali si ritiravano nella propria stanza senza più uscirne per lunghi periodi di tempo.
Il decorso tipico osservato prevedeva una forma di
apatia scolastica iniziale seguita da una progressiva interruzione di ogni
forma di comunicazione con il mondo sociale che sfociava in una vera e propria
auto reclusione di durata superiore ai 6 mesi che, nei peggiori dei casi, si
protraeva anche per diversi anni.
Hikikomori significa isolarsi, chiudersi,
ritirarsi; la sua traduzione inglese, coniata dallo stesso Saito Tamaki, è
“social withdrawal” ossia “ritiro sociale”.
Il profilo tipico dell’hikikomorian (colui che
pratica hikikomori) è rappresentato da un giovane tra i 12 e i 18 anni, di
sesso maschile, figlio unico, o primogenito maschio, di estrazione sociale
medio-alta.
Il ritiro nella sua stanza è totale e implica un
altrettanto totale rifiuto nei confronti della collettività; si concretizza,
tra le mura domestiche, un tentativo di annientamento della propria persona; il
giovane evita ogni forma di comunicazione, non si relaziona con nessuno,
abbandona gli amici, non usa né internet né il cellulare.
Il numero degli hikikomorians rilevato da fonti
ufficiali in Giappone nel 2008 ha superato il milione di unità che corrisponde
a circa il 2% dei giovani; non esistono invece dati ufficiali per quanto
riguarda il nostro paese anche perché, di fatto, negli attuali manuali
diagnostici non troviamo ancora un disturbo che risponda alle caratteristiche
peculiari di tale comportamento.
Tuttavia, mi capita sempre più spesso di
confrontarmi con colleghi (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, …) su casi che
per molti aspetti rispondono ad alcune caratteristiche tipiche dell’hikikomori:
ritiro sociale da almeno sei mesi, fobia scolare precedente, incapacità di
comunicare se non utilizzando mezzi informatici, inversione del ritmo
circadiano (dormire di giorno e stare svegli di notte), comportamenti bizzarri,
mancanza di amici, …
La “variante occidentale” dell’hikikomori nipponico
prevede un ritiro meno marcato di quello giapponese; talvolta alcuni contatti
con il mondo esterno vengono mantenuti e, spesso, internet rappresenta una
sorta di compensazione per sopperire a quell’incombente senso di vuoto che
caratterizza l’auto recluso del sol levante. La rete è perfettamente funzionale
rispetto alla segregazione dell’hikikomorian occidentale: consente di mantenere
vivo un surrogato di comunicazione, di conservare una parvenza di “parola”
laddove la sua esclusione completa rischierebbe di far scivolare il giovane nel
dominio della follia e di tradursi anche in comportamenti autodistruttivi.
Questo non deve però consolarci; rappresenta sì l’unica forma di parola
possibile al momento ma non può prendere il posto di un discorso strutturato
tipico di una sana ed autentica integrazione nel mondo e con il mondo.
L’hikikomorian non chiede aiuto, è sintonico con il
suo progetto di segregazione volontaria, non si aspetta aiuto da nessuno e non
sente alcun bisogno di aiuto. E’ per questo che è importante far circolare il
messaggio, sensibilizzare i genitori affinché possano accorgersi delle prime
avvisaglie e rivolgersi a uno specialista psicoterapeuta.
Le dinamiche evolutive dell’hikikomori
Purtroppo a noi psicologi spetta sempre l’ingrato compito di puntare il dito verso i genitori per tentare di individuare, nelle loro modalità educative e relazionali, eventuali cause che possano spiegare comportamenti devianti; personalmente mi rendo perfettamente conto di quanto sia, da sempre, complesso il ruolo genitoriale e di quanto questa complessità si intensifichi con il passare del tempo a causa dei repentini cambiamenti sociali che la nostra epoca, priva sempre più spesso di una adeguata scansione temporale, ci impone. Non è quindi mia intenzione fare alcun processo ai ruoli e alle funzioni genitoriali anche perché, come ho più volte scritto da altre parti, la mia visione della crescita psicologica individuale non è deterministica bensì, in linea con la teoria adleriana, finalistica. Per riassumere questa mia visione mi piace sempre citare un’emblematica frase di Alfred Adler, padre fondatore della Psicologia Individuale: “Non sono né l’eredità né l’ambiente che determinano la sua (dell’individuo) relazione con il mondo esterno. L’eredità gli assegna solo alcune doti. L’ambiente gli fornisce solo alcune impressioni. Queste doti e impressioni e la maniera in cui egli ne fa ‘esperienza’ -cioè l’interpretazione che egli dà di queste esperienze- sono i mattoni che egli usa, nelle sue specifiche modalità ‘creative’, per costruire le proprie attitudini verso la vita. È il suo modo personale di usare questi mattoni -o in altre parole, è la sua attitudine verso la vita- che determina la sua relazione con il mondo esterno.”.
Detto questo proviamo a vedere, in modo sintetico e
semplificato, quali sono le principali dinamiche genitoriali che favoriscono
uno sviluppo armonico del figlio.
La madre ha il compito di strutturare lo spazio
della sicurezza, una solida base che, grazie ad un atteggiamento
sufficientemente protettivo, consenta al bambino di potersi muovere nel mondo
per sperimentare situazioni nuove, sopportando l’incertezza della non
conoscenza delle esperienze cui va incontro.
La madre è la prima persona con cui il bambino
cerca di stabilire rapporti; è lo scopo dei suoi movimenti, è il suo primo
contatto con un altro essere umano, il ponte con la sua futura vita sociale. La
madre è colei che getta, o dovrebbe gettare, il seme del sentimento di comunità
(in estrema sintesi per sentimento di comunità o sentimento sociale mi
riferisco a una particolare istanza insita, in embrione, in ogni essere umano
che ci consente di vivere in armonia nel mondo e con il mondo).
Il senso di protezione materno devo coniugarsi con
la spinta ad affrontare la società la cui fonte è rappresentata da una buona
riuscita della funzione paterna.
Il padre ha il compito di dimostrarsi un buon
compagno con la partner, con i figli e con la società; deve, in altre parole,
assolvere in modo corretto ai compiti che la vita ci richiede (amore, lavoro e relazioni
sociali).
Il padre è inoltre colui che avrebbe la funzione di
insegnare la fiducia e infondere il coraggio necessario ad affrontare i compiti
della vita.
Altro compito primario del padre è quello di
cogliere e intuire il momento
della separazione del figlio
dalla madre. Il suo aiuto serve ad evitare che il distacco diventi una ferita che
procuri colpa e abbandono.
Il padre rompe
la diade nata dalla maternità accompagnando il figlio nel mondo; lo
prepara ad affrontare le nuove relazioni, lo rassicura e lo conforta sul fatto che
tale strappo è stato necessario per scoprire ed affrontare serenamente
il suo contesto sociale di riferimento fuori dalle mura domestiche.
Se questi processi evolutivi vengono sommariamente rispettati
si struttura nel bambino, e successivamente nell’adolescente e nell’adulto, un
senso di coraggio inteso come apertura all’altro, come fiducia, come
espressione di un sentimento di appartenenza al mondo.
Il vero test per il coraggio è rappresentato
dall’esperienza nel mondo che consente di misurare la propria efficacia di
fronte ai compiti richiesti.
In una circolarità ad andamento sempre più ampio e
ricco costituita dal ciclo protezione – coraggio – spinta verso il mondo –
esperienza – protezione, si struttura progressivamente la capacità del bambino
di affrontare la vita in modo coraggioso e a costruire il suo stile di vita in
tale connotazione.
Se invece si verificano intoppi significativi in
questo processo evolutivo potrebbero sorgere problemi, più o meno gravi, di
adattamento che, nel corso dell’adolescenza, possono essere accentuati da
eventi esterni alla famiglia facendo vivere al giovane una condizione di
scoraggiamento ed accentuando in lui il suo sentimento di inferiorità.
Non mi soffermerò sulle dinamiche familiari
peculiari della cultura giapponese; al lettore interessato suggerisco la
lettura del testo di Carla Ricci citato in bibliografia.
Per quanto riguarda invece la situazione europea
vorrei fare qualche breve considerazione su quelle che possono essere
considerate dinamiche disfunzionali e a rischio nella formazione e
cristallizzazione di un comportamento di ritiro sociale.
Atteggiamenti iperprotettivi della madre, e un
eccessivo attaccamento, possono tradursi in un incremento del sentimento di
inferiorità del figlio che rischia di sentirsi inadeguato ad affrontare i
compiti sociali, soprattutto se il padre non avrà la capacità di rompere la
diade simbiotica madre-figlio.
Un’immagine paterna iperidealizzata può costituire
un altro elemento di rischio: il giovane per evitare il fallimento conseguente
alla irraggiungibilità del padre potrebbe rifugiarsi nel suo ritiro sociale
alla ricerca di un senso di sicurezza che nel mondo non sente di poter trovare.
Anche aspettative troppo elevate da parte dei
genitori possono tradursi nel rischio di una chiusura protettiva; la paura di
non riuscire a raggiungere gli obiettivi che gli altri si aspettano da lui,
rischia di concretizzarsi in una rinuncia, alternativa assai più rassicurante
della sconfitta.
Se lo scarto tra il “desiderato” e il “reale” è
troppo forte meglio rinunciare.
Pretendere un assoluto successo in tutti gli ambiti
del vissuto scolastico, dal rapporto con i pari, alle prestazioni sportive, al
successo nelle materie di studio, può far vivere al ragazzo un senso di
solitudine di fronte al suo vissuto di inadeguatezza.
La nostra società richiede performances comunicative sempre più elevate e se il genitore non è
in grado di infondere coraggio nel figlio, il rischio è quello di un ritiro
volontario in hikikomori.
Prevenzione
Prevenire il ritiro sociale è possibile: è necessario un continuo dialogo franco e aperto con il proprio figlio; un dialogo che non sia solo verbale ma, primariamente, emozionale.
Evitare di cadere nelle vorticose dinamiche sociali
delle aspettative troppo elevate e consentire all’adolescente di fare le
proprie scelte, appoggiandolo, facendo sentire la propria presenza e la propria
approvazione sono atteggiamenti che favoriscono l’autostima e il sereno
inserimento nel mondo.
Lasciare spazio all’autonomia senza pressioni e
rispettare le scelte e le opinioni del giovane che cerca un suo posto nel mondo
sono espressioni di un amore che prescinde dalla nostra personale ambizione.
Stimolare curiosità verso la vita con tatto e
discrezione.
Nel caso in cui si ravvisino comportamenti
inconsueti quali:
- Rifiuto
di andare a scuola
- Mancanza
di amici
- Isolamento
- Inversione del ritmo circadiano
- Paura di non essere accettati dal gruppo dei pari
- Utilizzo esclusivo di internet per comunicare con il mondo esterno
- Rabbia incontrollata
- Inversione del ritmo circadiano
- Paura di non essere accettati dal gruppo dei pari
- Utilizzo esclusivo di internet per comunicare con il mondo esterno
- Rabbia incontrollata
è importante un intervento tempestivo che potrebbe
produrre esiti favorevoli in breve tempo; un efficace aiuto terapeutico,
abbinato a un periodo di riposo, potrebbe risolvere la crisi.
Ciò che succede spesso in Giappone, tassativamente da evitare, è che la vergogna della famiglia, il tentativo di nascondere il
fatto di avere un figlio che pratica hikikomori, il tentativo di risolvere le
cose da soli per lunghi periodi senza successo, procurano nel sistema familiare
un senso di fallimento, una frustrante chiusura in se stessi e un generale
stato di forte tensione emotiva. Questi stati d’animo innescano un circolo
vizioso che tende al peggioramento e ritarda il processo di recupero.
E’ importante, oltre a una tempestiva richiesta
d’aiuto, stimolare la conversazione cominciando magari con parole banali e
rispettando comunque la privacy dell’adolescente. In questi casi la parola
d’ordine è gentilezza; meglio un atteggiamento di gentilezza che magari non
risolve il problema ma è qualcosa che il ragazzo comunque si aspetta.
Anche se il ragazzo si rifiuta di uscire dalla sua
stanza, ormai sporca e disordinata, il suo spazio non va violato e una parola
detta anche ad una porta chiusa può rappresentare qualcosa di importante.
La gentilezza e la pazienza sono cure delicate che
possono lentamente lenire le ferite.
Bibliografia:
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15. ZIELENZIGER, M. (2006), Shutting Out the Sun, tr. It. Non voglio più vivere alla luce del sole: il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, Roma 2008.
articolo pubblicato anche sul portale Medicitalia+ (http://www.medicitalia.it/minforma/38/1802/Hikikomori-adolescenti-in-volontaria-reclusione)
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articolo pubblicato anche sul portale Medicitalia+ (http://www.medicitalia.it/minforma/38/1802/Hikikomori-adolescenti-in-volontaria-reclusione)