Il governo tecnico era atteso, da
molti, come il nuovo messia ma anche il suo avvento sembra non aver scongiurato
la crisi economica di cui si parla ormai da troppo tempo.
Gli effetti più immediati della
crisi, sul piano puramente pratico, sono quelli che tutti conosciamo: pensioni
sempre più basse e sempre più “lontane”, grandi incertezze per il futuro,
soprattutto per i giovani e gli anziani, difficoltà nel trovare un posto di lavoro…
Quello che passa più inosservato
è l’effetto che questo periodo storico può avere sul nostro benessere
psicofisico. Le cronache degli ultimi tempi, in realtà, un po’ ci mettono in
guardia: gli imprenditori e i lavoratori che dall’inizio dell’anno hanno scelto
la strada senza ritorno del suicidio sono 22; tutte persone che si sono
tolte drammaticamente la vita per problemi causati dalla crisi economica, per
la paura di non riuscire a superare un momento storico ritenuto, evidentemente,
insostenibile.
Cosa accade nella mente di queste
persone? Possiamo solo provare a fare delle ipotesi in linea generale perché,
come non mi stanco mai di ripetere, reputo ogni individuo unico e irripetibile
ed ogni storia di vita va, quindi, analizzata nella sua unicità. Una
generalizzazione di massa sarebbe populista e cavalcherebbe l’onda delle grandi
e piccole testate giornalistiche che sguazzano nel guano del malessere umano
pur di fare notizia.
In linea di principio possiamo,
però, rifarci ai dati statistici che ci mostrano come nelle crisi passate il
tasso di suicidi, malattie mentali, dipendenze da alcol e droga salissero
rispetto ad altri normali periodi della storia (fonte: Scuola di Sanità
Pubblica di Harvard).
Se tutto ciò è vero sembra
proprio che ci debba essere una relazione tra il periodo di crisi e il
malessere psicofisico avvertito dal singolo.
Del resto non è difficile comprendere
come la crisi possa minare la fiducia dell’individuo e, nei casi limite, impedirgli di gettare verso il futuro uno sguardo ottimistico. Spesso la crisi non consente di vedersi proiettati nel futuro, toglie ogni speranza; e senza questa proiezione la vita
perde di significato e la depressione è a un passo. Depressione (e in questo
caso parliamo, tecnicamente, di depressione reattiva) significa impossibilità di guardare
avanti, immobilità e sguardo rivolto sempre all’indietro.
Cosa fare dunque?
Oltre a sperare che siano le
istituzioni a prendere provvedimenti al riguardo offrendo sostegno psicologico
ai più bisognosi, forse alcuni accorgimenti personali possono aiutarci a
sopravvivere nel migliore dei modi a questo disastroso momento storico.
Per cominciare iniziamo a
guardarci attorno (un po’ di sentimento sociale non guasta mai!): cerchiamo di
cogliere i segnali d’allarme che potrebbero giungere dalle persone che ci
circondano. Quali sono questi segnali? Non sempre sono chiari e inequivocabili
ma il campanello d’allarme potrebbe essere rappresentato da cambiamenti
repentini di umore (per es., paradossalmente, una persona che solitamente ha un
tono d’umore basso improvvisamente appare serena o, addirittura, “sopra le
righe”).
Altri segnali sembrano più
scontati, ma è bene ricordarli. Possiamo trovarci a parlare con persone che ci
sono vicine ed accorgerci che parlano sempre di quanto non valga la pena di
vivere questa vita. Possono esserci avvisaglie in prolungate insonnie,
agitazioni, trascuratezza del proprio fisico, alimentazione disordinata…
Insomma, ogni elemento che ci segnala dei cambiamenti comportamentali e/o
emozionali nelle persone che ci circondano non va sottovalutato, seppur senza
un allarmismo generalizzato.
Per quanto riguarda il nostro personale
benessere psicofisico, mettiamoci nell’ottica di dover superare questa crisi,
magari evitando le spese superflue.
Per persone del nostro tempo, quello
del consumismo per eccellenza, potrebbe essere difficile cambiare ottica
d’osservazione; tuttavia, a ben pensarci, siamo circondati da beni che non ci
servono a nulla, beni il cui bisogno è stato indotto da questa stessa società
consumistica che adesso ci sta voltando le spalle.
Un’analisi sociologica "interiorizzata" ci farebbe,
invece, comprendere quanto tali beni siano superflui e tali bisogni indotti; beni-bisogno che ci hanno, di fatto,
allontanato dai valori veri, dalle relazioni autentiche, dagli altri, dalla
nostra vera essenza, da noi stessi…
Se rovesciamo l’ottica di
osservazione, nel senso sopra descritto, forse la crisi può portarci a
riflettere e a recuperare i valori a cui non abbiamo più dato importanza,
travolti ed inglobati in modo passivo dal meccanismo del consumismo senza tregua.
Lasciamo, quindi, che la crisi ci insegni qualcosa, che possa portare qualcosa di buono
nella nostra vita; cerchiamo di non vedere solo quello che ci sta togliendo.
Approfittiamo della crisi per modificare
il nostro modo di socializzare: dimostriamo alle persone che amiamo,
soprattutto ai nostri figli, che l’affetto non è “il regalo”, “la mancia”, “il
vestito firmato”; l’affetto è la qualità della relazione, il tempo che
riusciamo a dedicarci l’un l’altro, i giochi che facciamo con i nostri figli, i
momenti di comunicazione con il nostro partner...
Cerchiamo allora di fare in modo
che questa crisi abbia un suo senso: il recupero di quella socialità ormai
perduta; quella modalità sociale di essere “con” e “per” l’altro; ciò che il padre
della Psicologia Individuale, Alfred Adler, chiamava “sentimento sociale”,
ossia quel “sentirsi” parte del mondo “sub
specie aternitatis” (sotto l’aspetto dell’eternità).
17 aprile 2012